| Bisognerebbe iniziare a fissare piuttosto che a guardare.  Perché nello sguardo l’occhio è libero di andare dove la volontà lo porta;  mentre nello sguardo fisso, l’occhio si obbliga a rimanere costante su un unico  oggetto, le cui singole parti non hanno più rilevanza. Quello che conta è  l’oggetto in sé. L’oggetto che qui s’intende fissare sembra avere una forma  precisa, qualcosa di profondamente familiare, di semplice, di umano. Amore,  morte, felicità, dolore, attenzione alle cose del creato. I grandi compiti  dell’esistenza. Quali sono le parole e i gesti per riuscire afferrarli? Ci  proviamo, ma le nostre azioni e parole perdono ogni volta di sostanza, si  trasformano in una domanda continua che non trova definizione o risposta. Come  dice Carver, è come se ci chiedessero di descrivere a un cieco che cos’è una  cattedrale. Ci possiamo solo avvicinare a quella che potrebbe essere una sua  definizione, ma non saremo mai in grado di dargliene una definitiva. Il suo  spostamento, sempre un po’ più là da noi, è quello che ci fa avanzare, che ci  porta a ritentare, ad aggiungere pezzi, fa in modo che non ci sia un termine  ultimo, un’ ultima parola, un ultimatum, una forma chiusa. Una fine. Per  cercare di definire, potremmo non finire mai. E allora questa lotta  all’insufficienza del sentire umano diventa irriducibile. Diventa il dramma in cui vogliamo sprofondare. Non è che non ci sia nessuna cosa  da esprimere: c’è da esprimere questa mancanza di contenuto che, per il suo  essere vaga, è più comprensibile di qualsiasi altra cosa. Meno afferma e più si  fa appartenente a tutti. Poiché non resta che dire che sia quella cosa, quella  forma. Come un oggetto della minimal art che con la sua fredda presenza è in  grado di lanciare fuori di sé le traiettorie di possibili relazioni, rendendole  una funzione dello spazio, della luce, del campo visivo dello spettatore, allo  stesso modo questo lavoro vuole porre l’accento sull’istante di esperienza  dello spettatore che avviene al di fuori dello spazio e del tempo reali, un  momento, l’unico, che come un’illuminazione infonde all’opera il suo vero  significato, che sembrava prima mancante.
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        |  regia Silvia Costa e Giacomo Garaffonitesti, scenografia e disegno luci Silvia  Costa
 musiche originali Lorenzo Tomio
 con Silvia Costa, Laura  Dondoli, Giacomo Garaffoni,
 Sergio Policicchio
 realizzazione dei costumi Laura  Dondoli
 realizzazione delle scene Lucio  Serpani
 assistenza tecnica Francesco  Catterin
 
 
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        | Silvia Costa (Treviso, 1984)Si  diploma nel 2006 in Arti Visive e dello Spettacolo all'Università IUAV di  Venezia.
 Nello  stesso anno inizia a lavorare come attrice con la compagnia Societas Raffaello  Sanzio, con cui tutt’ora continua a collaborare, anche in qualità di assistente  alla regia nelle produzioni del regista Romeo Castellucci. Nel 2007, insieme al  musicista e compositore Lorenzo Tomio, inizia progetto personale di creazione  sotto il nome Plumes dans la tête: non un gruppo a formazione fissa, ma  un contenitore di idee, sempre pronto a ridefinirsi. Il fuoco della ricerca è  di creare immagini che tocchino lo sguardo e il cervello dello spettatore;  siano esse fatte di corpi, spazi, strutture o suoni. Nei lavori creati tali  elementi si combinano ogni volta in maniera differente, senza gerarchie se non  quelle dettate dall'idea. Dal 2012, in seguito ad una commissione da parte del  festival UovoKids di Milano, è iniziato anche un percorso di creazione di  lavori installativo-performativi dedicati all’infanzia. Con l'inizio del 2013  il progetto Plumes dans la tête si può definire concluso. Questa chiusura vuole  sancire la fine di un ciclo e l'inizio di un nuovo percorso di ricerca che non  ha una definizione precisa e nemmeno ne è alla ricerca, ma vuole fare della  promiscuità, dell'eclettismo e del nomadismo della forma la sua cifra. L’ultima  creazione Quello che di più grande l’uomo  ha realizzato sulla terra è stata finalista all’edizione 2013 di Premio  Scenario.
 www.silvia-costa.com
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